Un saluto a Paolo Giorgio Ferri, il magistrato che si batteva contro i “predatori del tempo”.
Dal 1994 contro il mercato nero dei reperti archeologici.
Un infaticabile e costante lavoro di difesa dei nostri beni culturali. Questa è l’azione di coraggio che portò avanti il giudice Paolo Giorgio Ferri, scomparso domenica 14 giugno 2020 all’età di 72 anni. Egli svolse importanti indagini sulla razzia di reperti archeologici scavati di frodo in Italia e spesso venduti di contrabbando ai maggiori musei e case d’asta del mondo. Si impegnò per riportare in Italia i beni trafugati, lottò a lungo affinché la legislazione nazionale prevedesse finalmente pene adeguate all’entità culturale ed economica dei crimini contro il patrimonio.
Per fare un esempio della portata delle due indagini, basta ricordare un evento in particolare. Dal 2009, Ferri ha rappresentato l’accusa nel processo a Marion True, ex curator del Getty Museum, accusata di aver acquistato per il museo beni archeologici di provenienza illecita e di associazione a delinquere. La True era infatti legata ad alcuni tra i più proficui trafficanti d’arte in Europa, quali Robert Hecht, Giacomo Medici, Gianfranco Becchina e Robin Symes.
Un mercato stimato milioni di dollari.
Per avere un’idea della portata del mercato nero di reperti archeologici, riporto la risposta che il giudice Ferri diede quando durante un’intervista gli venne chiesto cosa NON fosse riuscito a fare:
Non sono mai riuscito a perquisire, a Ginevra, George Ortiz, il collezionista più formidabile: ogni settimana acquistava pezzi importanti da Gianfranco Becchina, il “re” del traffico nel Centro Sud, di cui è stato anche un finanziatore. […] Ma possiede anche una sfinge che proviene da una tomba di Cerveteri dove, probabilmente, erano contenuti ben quattro vasi di Eufronio. O i tanti musei contro cui non ho potuto procedere: il giapponese Miho, sorto tutto con acquisti sul mercato; il Louvre, che da Becchina ha acquisito almeno un bel vaso del Pittore di Issione; la Ny Carlsberg Glyptotek di Copenaghen, che conserva parte di un carro sabino con splendidi rilievi in bronzo del VI secolo a.C., e l’altra metà è in Italia […]”
(da Il Giornale dell’Arte n°299, 2010).
Una figura che lascia il segno.
Ho avuto la fortuna di poter assistere, nel febbraio di quest’anno, ad una lezione del giudice Ferri. Ricordo che conosceva perfettamente la differenza tra diverse forme vascolari: parlava con non chalance di crateri, kylix e lekythos. Mostrò alla classe alcune delle migliaia di polaroid sequestrate nel deposito di Giacomo Medici, che ritraevano reperti meravigliosi ancora sporchi di terra, fotografati nell’istante in cui vennero dissotterrati. Ci fece leggere le lettere, in codice, che si scambiavano i diversi protagonisti del traffico illecito, di cui lui ricostruì ogni legame. Ci parlò del suo decennale lavoro, nello svolgimento del quale si fece aiutare da illustri ed esperti archeologi come Daniela Rizzo, Maurizio Pellegrini, Fausto Zevi, Giovanni Colonna e Gilda Bartoloni.
Difficilmente l’Italia avrà la fortuna di ritrovare un personaggio del suo calibro, ma spero che il suo lavoro possa essere d’esempio e d’ispirazione per quanti decidono di operare in difesa dei Beni Culturali.
Parte del suo operato è contenuta in un appassionante documentario, “I predatori del tempo”, che racconta del ruolo di istituzioni museali e collezioni private nell’ambito del traffico illegale di reperti archeologici. Di seguito il link: https://www.raiplay.it/programmi/ipredatorideltempo
– Virginia Ferraguti, archeologa
0 commenti