La storia si racconta: come nasce un impero, capitolo II. Ciel sereno.

Pubblicato il 11 Maggio 2015

TARANTO

Il mare era calmo. Il sole iniziava ad affondare tra i suoi flutti, un’altra giornata volgeva al termine. Sulla spiaggia, un uomo era preso dai suoi pensieri. Osservava il mare sereno, ricordava che non fosse così quando l’aveva oltrepassato, tante primavere prima. Guardò l’orizzonte che non mostrava altro che acqua e nuvole, ma lui vedeva aldilà di tutto questo. A molti stadi di distanza, circondata da un paesaggio collinare, vi era la sua madrepatria Sparta. I ricordi della partenza erano ancora molto vivi nella sua mente, rimembrava ancora di quando fu costretto ad organizzare il viaggio con i suoi compagni, rassicurando la propria moglie che avrebbero trovato un luogo migliore dove vivere in pace. La partenza con poche navi, la tempesta, la fame, la disperazione gli provocavano ancora dolore. Una fitta lo colse in quel momento, portò una mano al petto quasi a voler estirpare quel malanno che da alcuni giorni lo infastidiva assiduamente. Sapeva che quel sintomo era solo l’inizio e intuiva che tra non molto sarebbe stato accolto da Ade in persona negli inferi. Tornò ad osservare il mare sempre più scuro e le stelle iniziavano ad ornare il ciel sereno… Ciel sereno… Ethra. Parola che un tempo gli procurava gioia e amore, un sentimento così forte che poteva essere anche molto doloroso. “Mi manchi tanto, amore mio” pensò. “Non c’è giorno che io non pensi a te. Tu hai donato alla mia vita più di quanto mi meritassi. Ricordo ancora quando arrivammo nella nostra nuova terra, come accarezzavi il mio volto ormai stremato da tutti quei giorni di nave.” Si accarezzò il viso lentamente. “Sento ancora le tue lacrime bagnare le mie guance, ma il tuo dolore, amore mio fu speranza per tutti noi, in quanto sei stata il messaggio degli stessi dei che ci donarono quella nuova patria.” Quella patria che non era più Sparta, né quel mare che ora osservava, né quella sabbia che calpestava.

Ormai era del tutto buio, perciò decise di avviarsi sulla via del ritorno, e intanto guardava le luci del villaggio degli indigeni che lo avevano accolto. Quanto era ironico il fato: ora era venerato dagli stessi nemici che lui stesso aveva scacciato insieme ai suoi compagni e che per tanto tempo aveva combattuto per assicurare ai cittadini la sicurezza da eventuali attacchi. Ricordava ancora di quando si insediarono su quel promontorio che separava i due mari che bagnavano quella terra su due lati. Una volta preso possesso del territorio, rammentava, esplorarono le aree circostanti in cerca di eventuali resistenze indigene. Arrivarono presso un fiume che molte leggende antiche ricordavano, in quanto si narrava che un figlio di Poseidone fosse sbarcato lì tanto tempo prima di loro, a cui lui e i suoi compatrioti dedicarono la loro nuova terra: Taras.

Arrivò nel villaggio dei barbari. Pochi uomini si aggiravano tra quelle piccole abitazioni di legno e pietre. Uno di loro, il “re”, gli si avvicinò sorridente. «Salve Falanto, hai fatto tardi stasera.» Falanto, un nome che lei pronunciava molto più dolcemente. «Si, i ricordi hanno preso il sopravvento e non mi sono accorto del calar del sole.» rispose. «Come va il tuo male? Spero che si sia placato.» domandò, con sincero dispiacere, il capo villaggio. «Al dolore posso resistere, ma spesso sono i ricordi a far più male.» replicò il greco, con il pensiero rivolto ai giorni ormai andati. Riprendendosi, ringraziò il barbaro e si avviò verso la sua abitazione. Si sdraiò per riposare, il dolore nel petto non impedì ai suoi occhi di chiudersi e sognare. Purtroppo i sogni non gli furono lieti, i suoi ricordi non volevano abbandonarlo: si ritrovò di nuovo nella sua Taras, a molte primavere dopo lo sbarco sulla spiaggia di Satyria; la città stava man mano espandendosi, alcuni templi già occupavano l’acropoli, nella parte bassa già si poteva notare un accenno di un vero e proprio spazio urbano come quelli della lontana Grecia. La necropoli andò a crearsi più ad oriente rispetto al centro abitato, ma non mancavano nella zona piccole aree agricole sparse. Lui camminava insieme alla sua Ethra per le strade della città, salutato da tutti i concittadini che lo acclamavano come loro eroe per avergli donato quella nuova terra, ma non tutti sembravano così contenti della sua presenza. Mentre camminava, il cielo ad un tratto divenne nero, si ritrovò durante l’assemblea pubblica e la gente inveiva contro di lui, la stessa che qualche momento prima lo applaudiva a gran voce. Alcuni di essi, che con lui avevano condiviso l’esilio e il terribile viaggio, erano schierati innanzi a lui uno accanto all’altro, osservandolo con sguardo accusatorio. Si accorse che Ethra non era più al suo fianco, ma era trattenuta da alcuni uomini che le impedivano di raggiungere il suo sposo. Lui ordinò di lasciarla immediatamente, ma uno dei suoi ex compagni gli urlò contro: «Ora non sei più tu a dare ordini, la tua tirannia è finalmente destinata alla conclusione, per troppo tempo abbiamo tollerato il tuo crescente potere!» Falanto era sgomento, non riusciva a credere a quello che stava succedendo, a come si era potuto arrivare a questo. «Non capisco di cosa parli! Come puoi accusarmi di tirannia, io non ho fatto altro che creare una città migliore per tutti noi, una patria che fosse migliore di Sparta! Una città libera!» ribatté. «Hai detto bene, una città migliore di Sparta e lo sarà una volta che tu l’abbandonerai! L’assemblea ha deciso che tu sia esiliato immediatamente da Taras!» Ethra iniziò a dimenarsi tra le braccia dei suoi carcerieri, strette come catene, che le impedivano di muoversi di un passo. Falanto la osservava impietrito. «Sono io che vi ho portato qui, se non fosse stato per me ora sareste tutti schiavi o peggio…morti! Voi dite che Taras sarà migliore di Sparta senza di me? Avete torto, dopo di me sarà anche peggio, perché invece di avere solo due re, Taras ne avrà molti di più e la condurranno alla catastrofe!» presagì il condottiero, che continuò: «Ma siccome io rispetto la decisione del mio popolo, abbandonerò Taras, ma lasciate almeno che io saluti mia moglie.» Con un cenno il capo della sedizione diede ordine di lasciare la donna. Ethra corse tra le braccia del suo sposo, piangendogli sul petto fiero. Lui portò dolcemente gli occhi della donna verso i suoi: anche se molte lune erano passate sul suo viso, era sempre la donna più bella che avesse mai visto. «Amore mio, tu devi rimanere qui, non voglio darti di nuovo il dolore di abbandonare la patria, lascia solo a me questo fardello.» Lei scuoteva nervosamente la testa fra le sue man. «No io non ti abbandonerò mai! Ho giurato di starti sempre vicino, non…non posso lasciarti andare da solo, la mia vera patria sono le tue braccia e andandotene tu me ne privi, lasciandomi sola in una terra straniera!» Le parole di Ethra furono come pugnali nel cuore, ma ora il futuro gli era diventato oscuro e ignoto e non voleva trascinare la propria moglie in tutto questo, la sua unica sicurezza era rimanere a Taras. «Ethra, tu sei la loro patria, è dalle tue lacrime che è nata Taras. Tu sei la vera madre di questa città e una madre non abbandona mai il proprio figlio, gli sta sempre vicino e fa in modo che cresca forte e fiero. Questo è il tuo compito, amore mio.» L’abbracciò appassionatamente e la rincuorò. «Io tornerò da te. Ricordati delle altre parole dell’oracolo: in un modo o nell’altro io tornerò in questa città e sarò per sempre vicino a te e a tutti loro.» La baciò sulle labbra assaporando le sue dolci lacrime. D’un tratto l’immagine si sbiadì. Ethra, l’assemblea e la città svanirono intorno a lui, ritrovandosi da solo su una collina lontana da dove poté ammirare per l’ultima volta la sua Taras. «Addio amore mio.»

Questa volta una fitta dolorosa lo colse nel sonno, destandolo da quell’incubo e lasciandolo per qualche momento senza respiro. Infine urlò in preda al panico, svegliando i suoi vicini che chiamarono di gran fretta il loro capo che lo soccorse. Il barbaro richiamava l’attenzione di Falanto, ma quest’ultimo non sentiva né vedeva più chi gli era vicino. Davanti ai suoi occhi si stagliava la figura della sua amata e con la mano tentava di afferrarla, ma inutilmente. Svenne.

La mattina dopo si svegliò circondato dai sui ospitanti, preoccupati per la sua salute. Era sudato, in preda alla febbre alta, ma ancora lucido. Sapeva che il suo tempo era scaduto, ma non poteva morire prima di riuscire a far avverare le ultime parole dell’oracolo. La sua voce non era più quella possente di un tempo, ora era quasi un sibilo ma con tutte le sue forze disse: «Una volta che la mia anima avrà lasciato il corpo, voglio che voi esaudiate il mio ultimo desiderio…» Tossì e il dolore si fece sempre più forte. «Dovete fare in modo che le mie ceneri siano sparse nella piazza di Taras.» I barbari rimasero turbati da quelle parole. «Tu sai benissimo che la tua città è nostra nemica, tu stesso hai cacciato i nostri fratelli da quelle terre ed entrarci non sarebbe facile.» rispose il capo, ma Falanto replicò: «Voi siete stati magnanimi nei miei confronti, mi avete accolto quando i miei stessi compagni hanno fatto in modo che io fossi esiliato da quella città, a cui ho dedicato tutta la mia vita ed ora meritano di essere puniti per il loro misfatto.» I barbari si guardarono gli uni con gli altri non capendo le parole dello straniero. «L’oracolo ha predetto che se le mie ceneri saranno sparse sulla piazza, Taras cadrà…» A quelle parole i barbari rimasero stupiti: loro sapevano che lo straniero provava sincero odio contro i suoi concittadini quindi non aveva motivo di mentire loro. Senza indugio il capo stesso assentì alla richiesta del greco. Sicuro che il suo volere sarebbe stato esaudito, il tarantino si addormentò senza riaprire mai più gli occhi.

Il giorno seguente, con una cerimonia degna di un grande uomo, gli indigeni trasportarono il corpo di Falanto sulla pira. Il capo dei barbari si assunse la responsabilità di dar fuoco all’altare di legno. La fiamma ci mise poco per avvolgere il corpo del fondatore di Taras, che la sorte ha voluto che morisse lontano dalla sua terra, sia da quella in cui era nato, sia da quella che aveva creato. I barbari crearono una tomba monumentale in onore del loro ospite, che tanti consigli aveva saputo fornirli, facendoli crescere come popolo. Ma il sepolcro non accolse mai le sue spoglie.

Qualche giorno dopo, due stranieri si aggiravano di notte tra le vie di Taras con un’urna tra le braccia. Arrivarono nell’agorà, aprirono il vaso e sparsero le ceneri di Falanto, fondatore di Taras, capo dei Parteni, esule di Sparta. Quando ogni granello di cenere fu sparso sulla pubblica piazza, i due sparirono velocemente nelle strade buie, ma non si accorsero che una figura femminile li osservava nell’ombra. Il volto della donna anziana sorrideva, perché aveva assistito dopo tanto tempo al ritorno a casa del marito. Ethra ricordava ancora le parole dell’oracolo profetizzate a Falanto: “Quando tu morirai, le tue ceneri dovranno essere sparse sulla piazza della nuova città affinché essa non cada mai per mano dei suoi nemici”. Questo fu l’ultimo atto di amore verso la propria città e i suoi concittadini, che anche se l’avevano cacciato ignobilmente, Falanto continuò ad amare sempre e avrebbe vigilato per sempre sul destino di Taras assistendo alla sua ascesa tra le nuove colonie greche.

ROMA

Anno LXXVI dalla fondazione

Mentre le spoglie del fondatore di Tarentum tornavano a casa, Roma era in guerra. Il successore del pacifico Numa Pompilio, Tullio Ostilio, aveva scatenato un’offensiva contro i territori etruschi e sabini che confinavano col regno romano. Molte città erano state sconfitte, ma la sete di guerra del re non si placò finché Roma non avrebbe avuto la vittoria totale.

di Roberto Ferretti, archeologo.

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