Il cuore gli batteva così forte che sembrava quasi potesse uscire dal suo petto in qualsiasi momento. Le sue mani erano ancora sporche di sangue, le guardava come se non fossero più le sue, erano artefici del misfatto che si era appena compiuto senza che lui avesse potute fermarle.
Si sentiva osservato. La gente lo circondava, attonita e silenziosa, il volto delle donne era segnato dalla paura, quello degli uomini dall’incredulità e rabbia. Egli si alzò osservando i suoi compagni e coloro che erano al di là del muro sacro, dal quale, dopo quello che era successo, se ne tenevano ancora di più ben distanti. «Così, d’ora in poi, possa morire chiunque osi scavalcare le mie mura!» ammonì l’uomo puntando la folla con le sue mani insanguinate. Gli avversari si allontanarono in gran fretta da quel luogo, molti inveirono e maledissero chiunque lo avesse abitato. L’uomo voltò il suo sguardo su quello che una volta era stato il suo gemello, il quale ora giaceva in terra privo di vita. Egli rivedeva se stesso nel viso del fratello; osservandolo sentì nella sua anima un cattivo presagio perché sapeva che gli dei non gli avrebbero mai perdonato quella blasfemia e che il suo nome in un modo o nell’altro sarebbe stato per la città, che un giorno sarebbe stata eretta su quelle colline da lui e i suoi compagni, il simbolo sia della nascita che della sua caduta. «Romolo…Romolo…» così lo chiamò Celere, il suo fido compagno. «Dobbiamo seppellire il corpo, altrimenti l’anima di tuo fratello vagherà e maledirà per sempre questo luogo.» Romolo fece un lieve cenno d’assenso con il capo continuando ad osservare impietrito il corpo di Remo.
Dopo molti giorni il nuovo villaggio voluto da Romolo prendeva sempre più forma. Esso occupava la sponda sinistra del fiume conosciuto anticamente come Albula, chiamato Rumon o Thybris dalle popolazioni etrusche, ma che sarà conosciuto dai posteri con il nome di Tiberium (Tevere). L’abitato si estendeva sulle alture del Palatium e del Cermalus.
Romolo aveva dato ordine di scavare una grande fossa per riempirla con ex voto agli dei, in modo che potessero benedire la loro patria. Dove fosse ubicata questa stipe rimane un mistero, molto probabilmente essa era situata al di sotto o nei pressi di quello che sarebbe stato il futuro Comitium. Per incrementare il numero degli abitanti furono accolti all’interno del pomerium gli esuli delle città vicine. Per la parte legislativa fu creata un’assemblea di cento Patres, dai quali sarebbero discesi i patrizi.
Un problema abbastanza grave afflisse i pensieri di Romolo: la mancanza di donne. La città vantava un gran numero di cittadini maschi, tanto che già poteva formare un esercito numeroso e potente, ma la presenza di donne era di molto inferiore, cosa che poteva ostacolare la garanzia di una discendenza. Per ovviare a questo problema, Romolo organizzò uno stratagemma: invitò i vicini Ceninensi, Antemnati, Crustumini e Sabini ad una festa da lui creata e chiamata Consualia, perché dedicata al dio Conso. Quando tutti gli invitati presero posto all’evento, Romolo, che si era mischiato nella folla, fece un gesto dando inizio al rapimento delle donne partecipanti: i romani estrassero le spade e afferrarono ognuno una donna nubile minacciando tutti coloro che si opponessero, mentre Romolo fu l’unico a riservare per sé una donna maritata (ignorando il fatto che lo fosse) di nome Ersilia. Tutti gli invitati restanti furono portati alla fuga. Alle donne rapite non fu perpetrata nessuna violenza, anzi gli fu dato diritto di essere integrate e assumere la stessa posizione dell’uomo che avrebbero sposato.
L’affronto subito era difficile da perdonare. I popoli vittime della perfidia romana chiesero che le loro ormai ex abitanti fossero immediatamente liberate, altrimenti si sarebbe giunti ad un conflitto armato. Romolo era già pronto a questa eventualità e fu proprio lui con i suoi soldati ad attaccare e sconfiggere i Ceninensi, gli Antemnati e Crustumini. Questo portò ad un allargamento dei territori sotto il controllo di Romolo, che inviò coloni a prenderne possesso. L’unico popolo ancora in grado di contrastare la nuova potenza latina era quello dei Sabini. L’esercito sabino si avvicinò alle mura di Roma, dove incrociarono una fanciulla di nome Tarpeia, figlia di Spurio Tarpeo, comandante delle guarnigioni sul Campidoglio. Tito Tazio, il re dei sabini, promise alla vestale che l’avrebbe ricoperta di ricchezze se avesse aperto le porte della fortezza al suo esercito. La notte seguente Tarpeia, che bramava ardentemente i tesori sabini, aprì le porte della cittadella, portando così alla sconfitta e la conquista della rocca per mano di Tito Tazio. Il re sabino mantenne la parola, per così dire, in quanto la vestale fu schiacciata ed uccisa dal peso dei monili e degli scudi dei guerrieri nei pressi di una rupe che avrebbe portato per sempre il suo nome.
Romolo riorganizzò il suo esercito portandolo al violento scontro finale contro i Sabini ai piedi dei colli Palatino e Campidoglio, nei pressi di una palude. Tra tutti i guerrieri si distinse per le sue azioni il sabino Mezio Curzio, che riuscì ad uccidere Osto Ostilio, uno dei comandanti dell’esercito latino. Romolo, accortosi di ciò che era successo, inseguì a cavallo l’ufficiale sabino, che fuggì dirigendosi verso la palude. La melma del pantano bloccò e inghiottì l’equino di Mezio Curzio che miracolosamente scampò ad una morte certa.
La battaglia proseguiva senza sosta e i morti ricoprivano l’intera area, ma ad un tratto delle urla echeggiarono dall’altura. Le donne che furono rapite dai romani si lanciarono nella battaglia, mettendo a rischio la loro stessa vita, per dividere i contendenti. Esse volevano evitare che i propri padri e i loro mariti si uccidessero tra loro, ricordando loro di essere ormai parenti e che si doveva evitare di lasciare le generazioni future senza padri o senza nonni. Gli uomini, guardandosi gli uni con gli altri e convinti dalle parole ragionevoli delle donne, abbassarono le armi terminando così il conflitto, che passerà alla storia come la battaglia del lago Curzio, nome dato in onore del condottiero sabino.
Tito Tazio e Romolo si accordarono nell’unire le loro popolazioni dividendosi la reggenza. La convivenza non era di certo ben voluta dal re latino, ma l’accettò e la mantenne fino all’assassinio di Tito Tazio a Lavinium, verso il quale, sebbene fosse stato perpetrato un atto gravissimo contro l’alleanza sabina-latina, non intraprese nessuna azione militare, dato che finalmente il potere su entrambi i popoli era finito tutto nelle sue mani.
Era l’anno 38 dalla fondazione di Roma e del regno di Romolo (716 a.C.). Erano passati anni dalla guerra del lago Curzio e i confini della città di Roma si erano espansi, sconfiggendo e annettendo i popoli vicini. Con la potenza romana crebbe anche il potere del re che trasformò il governo in una vera e propria monarchia assoluta, oscurando quello spiraglio democratico formato dai senatori. Questi ultimi, avendo perso ogni genere di prestigio, non riuscirono più a tollerare quel governo dispotico e pianificarono una sedizione. Durante un regio consiglio nell’area del Volcanal, un santuario dedicato al dio Vulcano, voluto da Romolo e posizionato ai piedi del Campisoglio, i Patres uccisero il loro re. Per nascondere tale misfatto, ai posteri fu raccontato che Romolo fu rapito e portato in cielo da una tempesta, divinizzando così la sua figura di fondatore di Roma.
I senatori cercarono di colmare il vuoto di potere dividendosi il potere tra loro, governando uno alla volta. Ma questo governo oligarchico era mal visto dalla popolazione che chiese a gran voce l’elezione di un nuovo re. Per evitare che la parte sabina e quella romana votassero per il proprio esponente, si decise che avrebbero scelto il candidato dalla fazione avversa. I romani scelsero il sabino Numa Pompilio, un uomo giusto e vicino agli dei stessi, di cui i sabini approvarono all’unanimità l’elezione. Il pio Numa, imparentato al defunto Tito Tazio avendone sposato la figlia, era restio a svolgere tale compito, in quanto criticava e voleva evitare di essere coinvolto dai costumi violenti dei romani. Così decise di consultare gli dei, per sapere da loro cosa dovesse fare: essi gli diedero segni favorevoli, in quanto forse con la sua voglia di giustizia e rettitudine avrebbe potuto cambiare quella violenta città. Nel XXXIX anno dalla fondazione, Numa Pompilio fu incoronato re di Roma. Come reggente, iniziò a cambiare il volto delle istituzioni governative e religiose.
Era il XLVIII anno ab Urbe condita, il decimo dalla morte di Romolo e il nono del governo di Numa Pompilio (706 a.C.). Mentre la città latina cresceva sotto la spinta rinnovatrice del suo nuovo re, su una costa lontana approdarono delle navi, da una delle quali sbarcò un uomo, stanco del lungo viaggio, esule dalla sua madrepatria e capo degli uomini che abitavano quelle imbarcazioni. Egli camminava su quella sabbia dorata, sperando che fosse quella la nuova patria che l’oracolo gli aveva promesso. Le forze lo abbandonarono e cadde su quella terra ignota. «Falanto!» gli urlò una donna, la sua compagna. Ella lo raggiunse e gli alzò il capo appoggiandolo al suo ventre. Preoccupata per la salute del suo sposo, non poté trattenere le lacrime che scesero dal suo volto stanco e provato e andarono a posarsi sul viso dell’uomo. Falanto riaprì gli occhi, osservò quelli lucenti della moglie e nella sua mente riecheggiarono le parole dell’oracolo “Quando vedrai piovere dal ciel sereno, conquisterai territorio e città”. Le accarezzò la guancia asciugandola dalle lacrime, sorrise e la chiamò “Ethra…” (Ciel sereno). Falanto e i suoi Parteni si inoltrarono in quelle nuove terre, abitate da genti barbare che furono scacciate e videro i loro villaggi distrutti. I greci trovarono un luogo strategico per il loro insediamento: un promontorio che divideva due mari, congiunti solo da un piccolo istmo naturale. I Parteni avevano trovato finalmente la loro nuova patria, che consacrarono al dio che abitava il fiume che bagnava quelle terre: Taras (Taranto).
di Roberto Ferretti, archeologo.
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